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Quando si parla di cucina ci sono elementi senza i quali è impossibile veicolare il gusto. Sale indispensabile, dolcificanti di vario genere, aceti e frutta acida ma soprattutto i grassi.

All’inizio del progetto MAMO il primo quesito che ci siamo posti è stato quello sui grassi: quali utilizzare? Quali sono disponibili nel nostro territorio? Quali è etico giusto usare nel rispetto dell’ambiente?

L’olio d’oliva è il primo della lista, naturalmente.
L’Emilia Romagna non è riconosciuta per la produzione di questo grasso, benché la presenza di ulivi e il loro utilizzo sia antichissimo.

Nella zona dell’Appennino tosco-emiliano, nello specifico nel comune di Brisighella, si attesta la presenza di un’attività oleicola fin dal II secolo, probabilmente grazie a un clima e un’esposizione favorevoli e un adatta composizione del terreno.

Negli anni 70 viene rivalutata e diventa un discreto polo di commercializzazione fino alla nascita della DOP.

Coltivare in biologico gli ulivi non è uno scherzo, soprattutto se si cerca di mantenere una produzione di un certo tipo. La pianta è esposta a molte malattie e parassiti. Non in molti riescono a farlo.

Molti produttori conferiscono al frantoio locale dove non c’è un grande controllo sulla qualità dell’agricoltura, ma dove i fattori di convenienza e quantità hanno la meglio.

Qualche produttore capace c’è e l’olio è straordinario, intenso con un gusto di carciofo e buccia di pomodoro.

Al secondo posto, ma al primo nel mio cuore, il burro.

Un grasso nobile, raro con una resa bassa e perciò (dev’essere) carissimo. Ma al di là delle problematiche di costo, il problema in Emilia Romagna è che non c’è una vera e propria cultura in materia e il monopolio del parmigiano non lascia neanche una goccia di latte e panna per la produzione.

Mancando quindi uno storico manca un savoir faire, cosicché anche acquistando burro da agricoltura biologica, prodotto artigianalmente, si incorre in una qualità del prodotto bassa, un burro spento, che non schiuma a lungo quando scaldato, piatto e non profumato. Per queste ragioni, cerco di usarlo il meno possibile, prediligendo altri grassi di origine animale.

La pecora è un animale che tratto sempre con piacere, grazie alla presenza intorno ai colli bolognesi di produttori capaci.

Da questa bestia, che compro sempre intera, mi avanza molto grasso, di cui è ricca. Un grasso senza residuo di acqua molto compatto quasi cristallizzato, dall’odore forte e dal sapore molto intenso, quasi sgradevole.

Per addomesticarlo lo utilizzo in impasti, dove da una bella struttura e consistenza e dove riesco ad addolcirne il gusto, come in una pasta choux che poi riempio di formaggio di pecora, non solo per filologia ma per una tridimensionalità di gusto che renda grazia alla totalità del prodotto.

Il Pollo che lavoro è allevato in montagna, la sua qualità è davvero assurda. Profumato, pulito, profondo ma soprattutto allevato con rispetto.

Non se ne deve buttare via nemmeno un briciolo.

Una delle sue qualità maggiori è il grasso, intramuscolare e sempre abbondante.

Da sempre lo sciolgo e ne ricavo quello che gli ebrei chiamerebbero “schmalz” o i giapponesi “Chyiu”, un olio giallo intenso, che profuma di tostatura ed erbe. Lo uso principalmente per cuocere confit carne e verdure assieme a tanto aglio ed aromatiche. E’ un prodotto incredibile anche negli impasti o in vinaigrette per condire verdure crude o legumi. 

Da Mamo, di tanto in tanto, faccio utilizzo di olii di semi, neutri. Olii che uso per emulsioni o per friggere, oli che non veicolano il sapore ma che cambiano la texture. Qualche amico vicino mi ha criticato per questo, in quanto l’olio di semi è generalmente prodotto in maniera industriale e coltivato in maniera invasiva e nonostante io compri un olio biologico con una spremitura a freddo, molto costoso per altro.

Ancora il dubbio e il senso di colpa mi rimane.

È forse il mio retaggio di tecnico della cucina che mi porta a fare queste scelte? Perché non fermarsi agli altri grassi nobili che utilizzo? È davvero quel cambio di texture che da qualcosa in più alla cucina?

Rispondendo all’ultimo quesito, forse no.

Differenziare è da sempre un tratto distintivo di quel che faccio e spero in futuro di poter utilizzare sempre più grassi, recuperando un prodotto che altresì verrebbe buttato e che invece fornisce una risorsa importantissima nello spettro della materia prima.

Scegliere una produzione rispettosa viene prima di tutto, anche se dovessi finire ad utilizzare un unico grasso e non poter aver accesso a nessun altro.
Reverenza verso il terroir vuol dire soprattutto rinunciare, escludere possibilità, in una ricerca spasmodica della verità.