Placenta
« Separati alla nascita »
“Primario involucro umano, membrana protettiva e conservatrice, cela una sorprendente realtà interiore, pronta a svelarsi in tutto il suo essere”
Così Marcus Gavius Apicius, gastronomo e viveur romano del I secolo a.C., denomina la ricetta di un’ancestrale cheese cake, torta a base di farina olio ed acqua, ripiena di formaggio, un antico esempio di tortello ante-litteram, dove la copertura di pane era spesso non considerata edibile, un semplice involucro che ne preservasse la qualità. Allo stesso modo parla il contemporaneo poeta Orazio, citando una torta dal nome lagana, antesignana della lasagna, sfoglie di pasta fresca posizionate una sopra l’altra, inframezzate da un goloso ripieno.
Prima dei romani già nell’Antico Egitto, antecedente al 2.000 a.C., era di comune uso la produzione di dischi di pane, con farine di farro molite in rudimentali mortai e farciti con miele, olio di palma o carne di pollo che in seguito venivano sigillati da un disco sovrapposto alla maniera di un raviolo. L’originario Feeter Maltoot, antesignano dell’odierno Fiteer, rappresenta un esempio di torta sfogliata a più strati, oggi volgarmente chiamato “pizza egiziana”.
Le paste ripiene egiziane furono di grande ispirazione per l’arte culinaria greca. Aristofane, già nel V secolo a.C. descrive all’interno delle sue commedie, numerose forme di “pasticcini” e torte dal gusto molto dolce. Non è un caso che la diffusione dell’allevamento ovino nelle Cicladi, permise l’elaborazione della più celebre torta salata greca, a base di erbe spontanee e formaggio di pecora, denominata Spanakopita.
Ritornando all’Impero Romano ed alla commistione di culture, è in questo periodo storico che la tecnica di cucina delle paste ripiene si diffonde in tutto il continente Europeo e diviene una delle più grandi espressioni di conservazione alimentare.
In Italia, l’epoca medioevale portò allo svilupparsi di un nuovo aspetto legato all’involucro di pasta, non più soltanto contenitore protettivo ma vero e proprio sipario volto a celare sorprendenti coupes de théatre, protagonisti di esclusivi banchetti rinascimentali. Spesso animali vivi, come uccelli, rane, tartarughe, nonché attori umani ed intere bande musicali, potevano improvvisamente saltare fuori da gigantesche torte, personificando un contenuto speciale, destinato al piacere di pochi.
In Britannia c’erano le famose pies, potevano essere facilmente trasportate e conservate durante i viaggi via terra e via mare, evitando così di stoccare animali vivi e deperibili derrate vegetali. La pie britannica determinerà una costante pressoché invariata nella storia, protagonista nella tragedia di Shakespeare, Titus Andronicus, ripiena di resti umani o nelle campagne di promozione alimentare, durante la Seconda Guerra Mondiale, quando fu creata la Woolton Pie, ad opera del famoso Chef del Savoy Hotel di Londra, torta a base vegetale per sopperire alle gravi carenze e penurie causate dalla guerra.
Da questo momento il raviolo è fatto.
Celebrato da Boccaccio nel Decameron, come rotolante dalla sommità di una piramide di formaggio grattugiato, posta nella piazza del Paese di Bengodi, la sua sfoglia si è assottigliata a minima protezione e sottile velo di un ripieno, sintesi di tradizione locale ed esplosione di gusto.
Qui, in Emilia Romagna il tortello è più che un semplice formato di pasta: è una religione intoccabile, dove la variante nel ripieno è tollerata, ma mal sopportata.
E non sia mai che si possa attribuire la paternità di questo sommo esempio di arte culinaria ad altri se non a noi, emiliani che ne abbiamo perfezionato le caratteristiche e lo abbiamo esportato in lungo e in largo da 100 anni a questa parte.
Come ben sappiamo, non c’è un’unica causa che fa scoppiare una guerra. Se la pasta trova le sue origini in Asia e successivamente nel mondo arabo, fino a noi, è anche vero che le influenze si sono moltiplicate nei secoli ed è grazie a quelle che siamo arrivati da Torta a Tortello. Da un formato grande a un formato piccolo.
La Francia, di cui rinneghiamo il valore in un atavico scontro al primato gastronomico, ha svolto un ruolo determinante nell’evoluzione del contenuto e del contenitore, soprattutto in epoca medioevale e rinascimentale. Maestri nello strabiliare hanno dato forme e ripieni impossibili alle loro “tourte”, pie calde o fredde, generalmente di carne, che contenevano le farce più varie.
Se ben ci pensiamo il ruolo dei cugini francesi non è che un esempio di come le culture ci abbiano influenzato. Con l’agevolarsi degli spostamenti e delle possibilità di comunicazione abbiamo conosciuto (e apprezzato) sempre più culture, che come noi hanno coltivato la necessità, fin dalla più estrema antichità, di sigillare in un involucro un prezioso ripieno. Cos’è il taco se non una sfoglia di mais tonda ripiegata su se stessa a guisa di raviolo?
Abbiamo dovuto aspettare il Maestro Marchesi, che con il suo raviolo aperto ci dicesse che là fuori potevamo guardare più lontano e più in profondità.
Che alla fine non c’è da meravigliarsi se alcune culture mangiano la Placenta umana. Un atto di connessione con se stessi, con il proprio contenitore, un freudiano impulso di appropriazione e interiorizzazione dell’altro, del suo prezioso ripieno.